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Diritto all’identità digitale

Nell’era dei social networks, la condivisione massimizzata di informazioni provenienti dai milioni di users rende ormai possibile trovare notizie, contatti, immagini e qualsivoglia tipo di informazioni semplicemente digitando il nome di una persona sul motore di ricerca. Questa facilità nell’acquisizione di dati attinenti ad una specifica persona ha obbligato i Legislatori nazionali ed europei ad intervenire per limitare o, perlomeno, contenere il fenomeno.

Il Diritto all’immagine

In Italia il Diritto all’Immagine gode di un posto di rilievo nella normativa nazionale, ergendosi a diritto fondamentale costituzionalmente riconosciuto.

Esso rientra a pieno titolo tra i diritti della personalità tutelati dall’art. 2 Cost. in quanto  mezzo di espressione e sviluppo della personalità umana. Questa impostazione costituzionalmente orientata ha permesso il graduale riconoscimento di diversi livelli di tutela, non solo in ambito civilistico (in termini di risarcimento del danno) ma anche -e soprattutto- in quello penale, attraverso l’inclusione del diritto di immagine nell’ambito applicativo del reato di diffamazione di cui all’art. 595 c.p. (in particolare, nella sua fattispecie aggravata prevista dal comma III del medesimo articolo) e del reato di sostituzione di persona ex art. 494 c.p..      

I Profili civilistici

L’art. 10 del Codice Civile (Abuso dell’immagine altrui) disciplina ed individua le ipotesi in cui l’utilizzo di immagini altrui integri un abuso; la norma non fornisce alcuna specifica definizione del concetto di “immagine”, ma la sua portata descrittiva può essere desunta dal dettato normativo. In particolare, integra un abuso del diritto in oggetto l’esposizione e/o la pubblicazione non autorizzata dell’immagine di una persona (o dei genitori, del coniuge o dei figli), fuori dai casi previsti dalla legge o qualora ciò comporti un pregiudizio del decoro e della reputazione della stessa (o dei suoi congiunti): in presenza di tali presupposti, l’autorità giudiziaria può su richiesta dell’interessato disporre la cessazione dell’abuso, salvo il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni eventualmente subiti.

In merito alla richiesta danni, la Giurisprudenza nazionale è più volta intervenuta sulla questione della risarcibilità derivante dall’utilizzo abusivo dell’immagine altrui, sia con riferimento ai danni patrimoniali sia a quelli aventi natura non patrimoniale.

Con specifico riguardo ai primi, in diverse pronunce la Suprema Corte di Cassazione ha riconosciuto la risarcibilità dei danni di carattere patrimoniale nelle sole ipotesi in cui l’abuso abbia determinato nel danneggiato l’impossibilità di riutilizzare in chiave economica la propria immagine : il diritto economico allo sfruttamento sarebbe quindi leso ogniqualvolta la diffusione di un’immagine ne determini il cd. deprezzamento da sovraesposizione (danno emergente), o quando il prezzo del consenso avrebbe riconosciuto al danneggiato un quantum maggiore in termini di corrispettivo ottenuto per lo sfruttamento de quo non autorizzato (lucro cessante) (ex multis, Cass.Civ., 11 maggio 2010, n. 11353).

I danni non patrimoniali necessitano invero di una maggiore attenzione, in quanto il diritto della personalità in esame deve essere necessariamente contemperato con altri diritti costituzionalmente rilevanti (quali ad esempio il diritto di cronaca); pertanto, l’attività interpretativa operata dalla Giurisprudenza svolge un ruolo fondamentale ai fini del corretto bilanciamento degli interessi in gioco. In generale, si può affermare che la lesione all’immagine è risarcibile qualora l’abuso abbia determinato -quale danno conseguenza- la “diminuzione della considerazione della persona da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali essa abbia a interagire”(Cass. Civ. n. 8397/2016).

Il Diritto all’immagine è altresì tutelato dalla legislazione speciale.

L’art. 97 L. 633/1941 (Legge sulla protezione del diritto d’autore) vieta l’utilizzo dell’immagine altrui quando da questo ne derivi un pregiudizio all’onore, alla reputazione e al decoro della persona ritratta. Tuttavia, tale norma ha introdotto rilevanti deroghe al principio del necessario consenso alla pubblicazione e/o utilizzo dell’immagine, individuando delle ipotesi tassative in cui tale consenso non è richiesto, e ciò in virtù di interessi pubblici prevalenti.

In particolare, la riproduzione non autorizzata è ammessa quando:

  1. è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico incaricato;
  2. risponde a necessità di giustizia o di polizia, o a scopi scientifici, didattici o culturali;
  3. la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie aventi interesse pubblico o svoltisi in pubblico.

I Profili penali

La sfruttamento abusivo e non autorizzato dell’immagine di terzi può altresì integrare fattispecie di natura penale, quali ad esempio il reato di diffamazione (art. 595 c.p.) ed il reato di trattamento illecito di dati personali (artt. 167-172 Codice Privacy).

La Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto che la diffusione non autorizzata di immagini integri il reato di diffamazione previsto dall’art. 595 c.p. e, in particolare, la sua fattispecie aggravata di cui al terzo comma; in particolare, qualora l’offesa avvenga a mezzo stampa o “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” (sulla assimilazione del web ad altri mezzi di pubblicità, cfr. ex multis Cass.pen., sez. I, 28/04/2015, n. 24431), la potenziale diffusione ad un numero indeterminato di destinatari giustifica l’inasprimento delle pene previste (reclusione da sei mesi a tre anni o multa fino ad Euro 516,00).

La rilevanza penale dello sfruttamento abusivo dell’immagine d’altri si estende anche alla normativa sul trattamento dei dati personali: l’art. 167 D. Lgs. 196/2003 prevede due diverse condotte tipiche punibili:

  1. il primo comma punisce chiunque proceda al trattamento illecito dei dati personali di terzi, in violazione di quanto disposto dagli articoli 18, 19, 23, 123, 126 e 130, ovvero in applicazione dell’articolo 129, per trarne profitto a sè o ad altri o, ancora, per arrecare un danno alla persona ritratta:
  • se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da sei a diciotto mesi, o
  • se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da sei a ventiquattro mesi;
  1. il secondo comma punisce invero chiunque, per trarne profitto a sè o ad altri o per arrecare un danno alla persona ritratta, proceda al trattamento illecito dei dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 17, 20, 21, 22, commi 8 e 11, 25, 26, 27 e 45, solo se da questa attività ne derivi un nocumento alla persona ritratta, con la reclusione da uno a tre anni.

In entrambe le ipotesi deve ritenersi che per la configurabilità del reato de quo sia necessario dimostrare la sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo specifico.

La sostituzione di persona

La diffusione delle comunicazioni digitali ha avuto, tra gli altri, l’effetto di incrementare in modo esponenziale i casi di furto d’identità e soprattutto di sostituzione di persona.

Il reato di cui all’art. 494 c.p. ha negli ultimi anni acquisito un ruolo sempre maggiore, in quanto punisce chiunque, per arrecare a sè o ad altri un vantaggio o per cagionare a terzi un danno, “induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici”.

Per quanto rileva in questa sede, tale fattispecie può integrarsi nella condotta di che crea ed utilizza un profilo su un social network utilizzando il nome di terze persone, al fine di denigrare e danneggiarne la pubblica reputazione ed inducendo in errore gli utenti sulle qualità del nominativo utilizzato. La Corte di Cassazione ha infatti riconosciuto la sussistenza di tutti gli elementi essenziali di tale figura delittuosa nelle ipotesi di furto di identità sui social networks (Cass. Pen., sent. 25774/2014).

Anche per il reato di cui all’art. 494 c.p. è richiesto il dolo specifico.